In missione si arriva, si sta, ed infine si torna: ecco la terza lettera di Martina dall’Uganda.
Ci siamo. Le valigie sono chiuse. No, questa volta non mi ci sono dovuta sedere sopra per chiuderle, come capita al ritorno da quei nostri viaggi in cui il troppo shopping ci fa stare con l’ansia di non passare i controlli all’aeroporto perché la valigia pesa troppo. Questa volta è tutto diverso. Le valigie sono più leggere dell’andata, perché sono state svuotate di cose inutili, di tutte quelle cose che ho messo dentro prima di partire pensando che sarebbero state indispensabili.
Beh sai, stai andando dall’altra parte del mondo, ti ripeti prima di partire, e non sai bene cosa ti aspetterà, meglio portarti tutto quello che pensi potrebbe servirti, anzi di più, anche cose che forse non ti serviranno mai. Esatto…cose. Cose, cose, cose. Ma quante cose abbiamo e quanta fatica facciamo a staccarci dalle nostre cose? Più cose abbiamo e più ci sentiamo meglio. Forse a volte ci fanno sentire più al sicuro, ci illudiamo che con le nostre cose siamo un po’ meno soli. Siamo accumulatori seriali. Tu vali in base a quello che hai. È così che ci fanno credere delle volte.
Poi ad un tratto arrivi in un Paese in cui la gente non ha nulla, eppure ti rendi conto che vale tantissimo. Allora inizi a farti delle domande e a pensare che forse è ora di cambiare la tua unità di misura. Un Paese in cui la gente non possiede nulla se non quello che può donarti. Il Paese di chi ha vissuto 20 anni nella guerra, di ragazze ritornate dalla foresta senza nulla, se non con un bambino da crescere, senza soldi, senza un lavoro, senza una casa e peggio ancora senza nessuno disposto a tentare di ricostruire insieme pezzi di questa umanità ferita.
A 7 anni forse sarebbe più giusto tenere in mano una matita e un quaderno piuttosto che un kalashnikov, non credi?
Queste ragazze mi hanno insegnato a stare nella vita in modo diverso perché hanno compiuto il loro cammino più lungo, la strada che porta da “io ho” a “io posso”. Forse non avevano nulla, ma qualcuno ha creduto in loro pensando che potessero fare qualcosa di buono, diventare un giorno donne migliori. E ancora oggi, sapete, questa gente non ha granché. Eppure è capace di darti tutto.
La mia valigia è più leggera perché ho lasciato delle cose, ma penso che le cose che lasciamo siano solo il pezzo più superficiale di noi. Forse potrai anche diventare capace di superare la tua avarizia, diventare così buono e generoso da regalare alcune tue cose, ma il gioco si fa serio quando ti viene chiesto di lasciare te stesso. È questo che credo interessi alle persone che si incontrano in Missione. Ti chiedono di donarti, di lasciarti andare, di condividere la vita, i sorrisi, i pianti, la musica, un pezzo di pane, una fetta di torta, di condividere ciò che sei in qualunque modo tu sia, con qualunque stato d’animo tu ti possa presentare, ti chiedono di entrare in relazione. Certo, ci sono alcune tue cose che potranno anche essergli utili, ma è di te che hanno davvero bisogno, della tua persona, con i tuoi difetti e i tuoi schemi mentali un po’ rigidi. Va bene così, non ti preoccupare, l’importante è che tu ci sia. È questa relazione che porta vita nei volti delle persone che incontri in Missione. È Gesù che ha vissuto in me nell’incontro con la gente, è Gesù che ha accarezzato volti stanchi attraverso le mie mani, abbracciato corpi troppo fragili, fatto fare le giravolte ai bambini e tentato di cantare le canzoni con le ragazze, forse a volte stonando un po’. È Gesù la prima relazione da cui ho ricevuto vita e senza la quale non sarei stata capace di muovermi nemmeno di un passo.
Ma in fondo che cosa c’entra la vita di queste persone con te? Con te che vivi tranquillo la tua quotidianità a migliaia di km di distanza, con gli occhi fissi sulle tue cose, con le tue solite preoccupazioni e i tuoi sogni forse un po’ troppo piccoli, di cui provi ad accontentarti?
La Missione in fondo non è sempre facile, questo va detto. Ci sono momenti di sconforto in cui ti chiedi come cavolo ti è venuto in mente di venire fino a qua quando potevi startene comodo tra le tue mura di casa. Allora perché dovresti rinunciare a qualcosa e fare sacrifici per partire verso una terra lontana, per andare a incontrare persone con cui ti sembra di non avere nulla in comune?
Forse non ho una risposta valida, perlomeno non nella teoria. So solo che io l’ho fatto e che lo rifarei da capo altre mille volte. Rifarei le valigie anche subito se sapessi che è quello che il Signore vuole da me oggi. Sì, perché la Missione non è rinuncia, non è sacrificio, è solo allargare le braccia per accogliere quello che gli altri hanno da darti.
In Missione ho pianto due volte: il primo giorno e l’ultimo. La prima sera in camera da sola quando mi sono resa conto della follia che avevo fatto, pensando che non sarei mai sopravvissuta due mesi così. E poi gli ultimi istanti prima della partenza, quelli in cui inizi a realizzare la Bellezza ricevuta.
È vero che la Missione è sempre, non inizia e finisce con un viaggio ma è nei luoghi della quotidianità, ma è anche vero che per scoprirlo a volte bisogna partire, per poi tornare a vivere in modo nuovo. Quindi quello che vorrei dirti oggi è che se, leggendo queste righe, ti avesse anche solo sfiorato il pensiero che forse un’esperienza in terra di Missione potrebbe arricchire la tua vita in maniera straordinaria, aprire i tuoi orizzonti e farti sognare in grande, ti prego di chiedere a Dio il coraggio di partire e di donarti questa possibilità, perché questo porterebbe alla tua vita una ricchezza incredibile.
E se qualcuno si sta ancora chiedendo che fine abbiano fatto i tacchini, posso dirvi con grande soddisfazione che due giorni fa sono passata in una stradina con un tacchino da una parte e uno dall’altra. Ho chiuso gli occhi e qualcuno mi ha preso per mano e ho scoperto che insieme si va più lontano.
Un abbraccio, ancora per poche ore, dall’Uganda.
Martina